venerdì 1 maggio 2020

Primo Maggio: non dimentichiamo la festa dei lavoratori


Che strano questo primo maggio, il primo da quando fu indetto nel 1889, senza manifestazioni di piazza.
Innanzitutto un po’ di storia: esso non è nato come una festa o un evento musicale, ma come una giornata di lotta; venne indetto nel 1889 al congresso di fondazione dell’Internazionale socialista come giornata internazionale di lotta per ottenere in tutto il mondo le 8 ore di lavoro giornaliere. Esso fu il primo sciopero internazionale, il primo esempio di mobilitazione planetaria, quando non esistevano i social, le comunicazioni erano limitate e incominciavano a diffondersi i primi telefoni.
Dunque giornata di lotta e mobilitazione che andò oltre la rivendicazione delle 8 ore e si estese ben presto a significare il riscatto dei  lavoratori.
E’ solo in un secondo momento che venne proclamata festa del lavoro (in Italia nel 1947).
Oggi i tempi son cambiati, la “questione operaia” sembra essere passata di moda, l’antagonismo di classe bandito, e la “festa “ del primo maggio una celebrazione ricorrente che assume sempre più i toni di una liturgia da ripetere ogni anno.
Ma è vero che quei problemi son tramontati? Che lo sfruttamento dei lavoratori, l’accumulazione del capitale sulle spalle dei più poveri appartengano ormai alla storia salvo casi sporadici?
Non credo. Certamente nell’Occidente il problema dello sfruttamento non si pone più negli stessi termini di un secolo fa. Quasi tutti gli stati europei riconoscono de jure,  e, sostanzialmente anche de facto, il diritto di sciopero e di associazione sindacale;  abbiamo un “regime” di welfare che bene o male garantisce i diritti minimi dei cittadini. Il fatto è che questi diritti e questo welfare vengono spesso messi in discussione, e sono sempre più frequenti gli interventi legislativi di smantellamento, gabellati come riforme (in realtà si tratta di contro-riforme, come quella che in Italia ha tolto l’art 18 dello statuto dei lavoratori). A questo si aggiunga che il principale strumento per sostenere ilm “welfare” era quello fiscale; attraverso una tassazione fortemente progressiva esso funzionava da redistribuzione parziale del reddito dalle classe più abbienti a quelle più povere, permettendo di finanziare la sanità pubblica, l’istruzione di tutti i giovani, e tutta una serie di altri servizi che lo stato forniva a prezzi ribassati quando non addirittura gratis; oggi questo sistema è in via di smantellamento dappertutto; la tassazione è sempre più “flat” (aliquota unica il contrario della progressività e spostamento del prelievo fiscale dalle tasse dirette, quelle sul reddito, che ognuno paga in proporzione a quanto guadagna, a quelle indirette); di conseguenza i servizi pubblici subiscono tagli sempre più corposi, ridotti al minimo, e spesso privatizzati; le conseguenze di 30 anni di tagli alla sanità e della sua privatizzazione le abbiamo viste chiaramente in questi giorni di emergenza a cui il pur efficiente sistema sanitario italiano non ha saputo rispondere.
Oggi lo sfruttamento passa per altre vie che quella del lavoro salariato in fabbrica: il dato fondamentale è che il capitale, contrariamente a quanto previsto da Marx, può fare meno della “classe operaia”: l’automazione da una parte, e la parcellizzazione di una miriade di lavoretti pagati spesso in nero, di cui i “riders” o i call-center sono 2 esempi significativi, dove non c’è intervento sindacale, diritto di sciopero di fatto abolito, hanno non dico spazzato via, ma di fatto molto ridotto la popolazione operaia. Questo crea un tasso di disoccupazione molto alto, ben aldilà delle cifre pur drammatiche date dagli organi ufficiali, che fa si che un giovane è disposto a lavorare con paghe orarie da fame, senza alcuna garanzia per il futuro, e  senza prospettiva di pensione futura, rischi per la sua salute ed incolumità. Questo non è sfruttamento? Se poi ampliassimo lo sguardo al mondo non occidentale, quello che una volta si chiamava “Terzo mondo”, allora vediamo che lì non esiste spesso diritto di sciopero, men che meno di associazione sindacale, il welfare del tutto inesistente, i ritmi di lavoro del tutto paragonabili a quelli di 100 anni fa; e guarda caso è lì che si sta spostando il grosso dell’attività manifatturiera.
Oggi si aggiungono i problemi di questa pandemia da Covid19 con tutti gli annessi e connessi: ulteriore spinta all’automazione, spostamento di gran parte del lavoro intellettuale a casa ( e state tranquilli che da casa si lavora di più che in ufficio, perché a quel punto tutto diventa “a cottimo”). Potrà sembrare un dettaglio in un momento in cui la maggior parte della gente ha paura del contagio, ma questo obbligo di stare a casa, con conseguente impossibilità di manifestare, che si protrarrà nel tempo non si sa bene quanto, sposta ulteriormente la bilancia del potere da una parte.
Occorrerà vigilare a che l’emergenza non diventi  permanente, occorre riprendere le motivazioni del Primo maggio, giacchè la diseguaglianza tra classi sociali, che esistono eccome, e tra regioni del mondo è una delle grandi crisi che abbiamo di fronte, l’altra essendo quella ecologica.
Anche se costretti a casa, ricordiamo il Primo maggio, festeggiamolo rimettendo in primo piano i problemi del mondo del lavoro, per essere pronti a “continuare” l’impegno per un mondo più equo, più rispettoso dell’ambiente e della dignità umana.
La pandemia, che tanti danni sta facendo, in un modo o nell’altro passerà, le altre crisi citate sono invece strutturali e non passeranno se non si cambierà radicalmente il modello di società.