Ogni anno ci ritroviamo in questa settimana che viene detta
santa, a ripercorrere il cammino di Gesù. Nella nostra società consumista e
distratta, è quasi un inciampo: il mercato non è riuscito a coprirla di eventi
commerciali come il Natale, come fa con quasi tutte le feste, religiose o
laiche che siano. Ci sarebbe da chiedersi come mai. Essa rimane come occasione
per ricordarsi di una storia di dolore e di gioia che ha dell’incredibile.
In questa strana settimana si toccano i 2 estremi: il dolore
più profondo e la gioia più grande. Si parte da un trionfo direi umano,
politico quasi: l’entrata in Gerusalemme (domenica delle Palme) è il successo
umano che pur è presente nella vita di Gesù e degli umani; è anche la parte più
comprensibile, razionale: Gesù predica un messaggio di pace e di amore, rivela
i segreti per vivere felici, la gente capisce, lo riconosce come un saggio, non
un ciarlatano in cerca di realizzazione per sé, né un moralista cupo e
ipocrita. E’ il Gesù forse più accettato, il saggio da mettere vicino ai saggi
di cui la storia umana è, per nostra fortuna piena.
Ma poi viene il dolore, la passione, lo scacco, la morte. Ho
meditato in questi giorni su quanto stridente doveva essere il contrasto tra
gli apostoli, che, galvanizzati dal successo “popolare” delle palme si
accingevano a festeggiare la pasqua ebraica, la principale delle feste, la
liberazione del popolo dalla schiavitù; e la tristezza di Gesù che sapeva cosa
lo aspettava di lì a poco. Dal racconto dei vangeli traspare che gli apostoli
non capivano il perché delle preoccupazioni del maestro. L’ultima cena, che
nell’arte e nella letteratura, come nella considerazione popolare di sempre, è
vista come un momento triste, l’addio, in realtà dovette essere una gran
baldoria in cui solo due persone erano tristi: Gesù che, appunto, sapeva che
quella era l’ultima cena, e Giuda, che già aveva deciso il suo tradimento.
Ma di qui inizia una storia di dolore, in una spirale
drammatica e tragica, che si conclude con lo scacco finale e la morte. Anche
qui siamo nel comprensibile umano: il martirio dei giusti, lo scatenamento
della furia violenta degli uomini impazziti (o troppo calcolatori!) fa parte,
ahimè, della storia, anche recente. Milioni di uomini lungo 2000 anni si sono
riconosciuti in Gesù: le celebrazioni della Croce sono tra le più diffuse e
sentite nel popolo cristiano, soprattutto nel basso popolo, quello abituato a
subire; sentire un Dio, che è uno di noi, che patisce come noi, è, secondo me,
una delle ragioni principali della presa del cristianesimo nell’animo popolare.
Al tempo stesso, però, è qualcosa che fa scandalo, non nel senso che si da
solitamente alla parola, ma nel senso che è fuori dalla comprensione razionale,
dal pensiero normale. Un Dio che ha promesso libertà e salvezza per tutti,
preso da molti, sicuramente da quelli che la domenica prima erano accorsi ad
osannarlo per la strada, come un liberatore, nel giro di pochi giorni viene
torturato ed ucciso. Ma come? Non è l’onnipotente? Perché si lascia torturare
ed umiliare, perché non reagisce? Perché non scende dalla croce e dà una
lezione a quei “bastardi”! Io non credo che chi gli chiedeva di scendere lo
facesse per insultarlo, quanto per sollecitarlo: libera te stesso (e anche
noi!): è il grido che lo stesso Gesù, rivolge al Padre: Dio mio, dove sei?
Perché mi hai abbandonato? Quando stavo male? Quando vedevo le persone a me care
soffrire? Quando ero in crisi, o lo erano le persone a me vicine e non sapevo
come aiutarle? Dov’eri Dio? Perché ti sei nascosto? Tutti hanno avuto momenti
come questi, anche i più fermi nella loro fede (recentemente, nelle varie
rievocazioni della vicenda del rapimento di Moro è stato ricordato come Paolo
VI pubblicamente “rimproverò” Dio: “le
nostre preghiere non sono state ascoltate”). Sono bestemmie? No. Sono
reazioni umane, perché Gesù stesso le ha avute (“Dio mio, perché mi hai abbandonato”), e dunque le ha santificate.
Il venerdì santo è il giorno della passione, della
sofferenza, ma ancora della lotta, della segreta speranza che alla fine Dio
ribalti la situazione, che, come in un film americano, anche solo contro tutti
il buono vinca. Ma questo succede solo nei film.
Il sabato è il giorno più triste della storia umana. La più
grande speranza che sia stata mai offerta all’uomo, con fatti che lasciavano
presagire il meglio (prodigi, guarigioni, persino un risorto), si ribalta nello
scacco totale. Il corpo inanime, tirato giù dalla croce, su cui anche Maria,
che pur doveva ben sapere che non finiva lì, pianse amaramente, rappresenta la
fine di tutto. La natura, la creazione ha fagocitato il suo creatore. C’è un
bellissimo passo di Dostojevski, ne “L’idiota”, che descrive magistralmente
questa assurda situazione.
Ma fin qui siamo ancora nell’umano, nel razionalmente
spiegabile: Gesù era un saggio, un profeta, attirava a sé le folle, ma nel suo
amore per la verità, nel suo dire la verità al potere, si era attirato
l’antipatia dei potenti; il contesto politico di allora, il complesso
equilibrio tra potere romano, sinedrio, popolo insofferente, la paura che la
sua predicazione suscitasse “derive terroristiche”, insomma tutto questo fa si
che si proceda alla sua eliminazione. Non fu la prima né certamente l’ultima volta
che uno schema di questa genere si realizzò.
Poi viene la parte più straordinaria, incomprensibile,
quella senza cui la Pasqua non sarebbe Pasqua, noi cristiani saremmo “da commiserare più di tutti gli uomini”
(I Cor. 15,19) e “vana” sarebbe la nostra fede. La Resurrezione, fatto straordinario
su cui la società moderna ha difficoltà al solo parlarne. Anch’io mi sono
chiesto più volte come questo sia potuto avvenire: veramente credo ad un fatto
di questo genere? Si! ci credo, nonostante la scienza, la razionalità,
l’istinto mi dicano il contrario.
Gesù è risorto veramente, questo è un fatto storico,
avvenuto in un certo momento del tempo, anche se non dimostrabile
scientificamente (con i mezzi oggi a nostra disposizione). La chiesa da 2000
anni proclama questo fatto, e in questa proclamazione sta tutta la sua
giustificazione, nonostante i tradimenti, gli errori, le schifezze che uomini
di chiesa hanno compiuto in questi 20 secoli.
La donne che tristi si stavano recando al sepolcro per dare
sepoltura definitiva al corpo che era stato appoggiato lì provvisoriamente,
segno evidente che alla possibilità di resurrezione non davano alcun credito,
si sono trovate di fronte all’impossibile; sono così poco “credenti” che inizialmente
non ci credono, poi la loro tristezza si tramuta in gioia. E quella gioia,
quella fede, si trasmette ai pochi discepoli rimasti, impauriti, fuggiti in
Galilea, e da lì giunge fino a noi.
Significativo che questo annuncio di gioia venga affidato a
tre donne: la lieta novella parte dalle donne, un privilegio che ha suscitato
non poche invidie da parte del “mio” genere.
Ogni Pasqua serve a ricordare anche ai più distratti l’onda
lunga della gioia, il più grande dolore, la tristezza cosmica, lo scacco totale,
che si tramutano nell’annuncio più gioioso, nella speranza più sublime. E
questo annuncio è per tutti, anche per gli increduli, anche per i distratti,
per chi è rimasto al sabato santo, per chi non riesce a superare il suo venerdì
santo.
E siccome la morte rappresenta lo scacco finale, a tutto c’è
rimedio fuorché alla morte recita un detto popolare, la resurrezione di Cristo
ribalta tutto, invece no, anche ad essa c’è il rimedio. Ed oggi è festa per noi
che viviamo e per chi ci ha lasciato: che ci abbiano creduto o no, Cristo è
risorto anche per loro.
E’ strano: è la Pasqua più che il Natale la festa di tutti,
perché la Pasqua è il destino di tutti, è l’invito rivolto a tutti, credenti e
scettici.
Questi pensieri, meditati in questa settimana santa 2018,
offro a chi le vuol leggere coi migliori auguri di
Buona Pasqua
Paolo Candelari, Torino 3 marzo 2018